domenica 16 marzo 2008

FUORI DAL TEATRO


Forse mai, come in questa campagna elettorale, si è fatto tanto spesso e tanto insistentemente appello al “nuovo”. Tutti dicono che c’è bisogno di qualcosa di nuovo nella politica italiana e, ovviamente, ognuno dichiara di rappresentare quel qualcosa di nuovo, di cui si sentirebbe tanto la necessità.
Eppure, se si vanno a guardare i programmi dei partiti o si ascoltano i leader politici che si alternano nei salotti radiotelevisivi, non s’intravede nulla di nuovo. Sarà per questo che si fa un gran parlare di questo “nuovo”? Spesso capita proprio così: quando non si è capaci o non si vuole realizzare ciò che è ritenuto necessario, se ne comincia a parlare in modo eccessivo, nella speranza che, a furia di parlarne, la gente cominci a credere che ciò che andrebbe fatto, pur non esistendo, è stato veramente realizzato.
Ciò che nel frattempo dobbiamo sentirci dire, in qualità elettori, è spesso talmente vecchio da rasentare, nel 2008, il ridicolo.
Dobbiamo ancora sopportare, per esempio, chi rivendica le proprie affinità con il fascismo, in nome di un nazionalismo anti-immigrazione degno dei peggiori regimi totalitari. Non meno ridicolo, tuttavia, è il razzismo di marca leghista, i cui leader si differenziano dai criminali del ventennio fascista solo per il colore delle camicie.
Dall’altra parte le novità sono altrettanto scarse. Non si riesce a capire, per esempio, come mai la sinistra “rosso-verde” continui ad allearsi, a livello locale-amministrativo, con il partito democratico, con cui, come essa stessa dichiara, non avrebbe nulla in comune. Come se ogni tornata elettorale fosse la prima, nonostante abbia avuto, specialmente negli ultimi anni, sorprese veramente sgradevoli: dai sindaci-sceriffo alle malefatte della regione Campania, dalle incongruenze romane di stampo prima rutelliano e poi veltroniano ai voltafaccia tipici di imprenditori prestati alla politica come Illy. Senza contare i voltafaccia di cui la stessa sinistra rosso-verde è stata protagonista: primo fra tutti il voto a favore del rifinanziamento delle missioni militari italiane, come quella in Afghanistan.
Chiaramente il centro della scena è occupato dai cosiddetti big: anche aguzzando la vista, proprio non si riesce ad intravedere la benché minima ombra dell’esistenza di qualcosa di nuovo. Già è difficile notare qualche differenza tra i programmi di Veltroni e Berlusconi, figuriamoci se è possibile scorgere una novità. Non a caso, infatti, non fanno altro che passare il proprio tempo a decantare la grande novità che ognuno di essi dovrebbe rappresentare.
Tutto nuovo, insomma. Giusto?

A proposito di nuovo: chi è disponibile a cambiare il corso di questa storia ripetitiva? In qualche caso c’è qualcuno disponibile, non a cambiarlo, ma a correggerlo. Nei casi migliori ci sarebbero anche coloro che potrebbero avere la giusta sensibilità per contribuire a questo cambio, ma, nel decidere di farlo all’interno delle formazioni che sono in primo piano nell’attuale palcoscenico politico, si sono condannati al ruolo di comparse.
Continuando a sfruttare la metafora teatrale, non saranno le comparse a dire stop a questa commedia infinita. Solo il pubblico, in termini politici il popolo, ha il potere di porre fine a questa nauseante rappresentazione: deve solo decidere di alzarsi e andarsene. Di punto in bianco tutti gli attori, dal primo protagonista all’ultima comparsa, non avranno più senso di esistere, così ridicoli, con ancora i costumi addosso.
Bisognerebbe uscire da questo teatro, non prestare più attenzione a questo spettacolo che di politico non ha più niente. Il biglietto che dobbiamo pagare ha un costo troppo alto, sia in termini di morti sui campi di battaglia e sui luoghi di lavoro, che in termini di vite rese troppo difficili dalla precarietà e da salari e pensioni da fame.
Alziamoci e andiamo via. Fuori da quest’assurdo teatrino ci sono la politica e la storia che ci attendono. Vogliono essere cambiate.

Roma, 16 marzo 2008

Carlo Olivieri
medico umanista

mercoledì 5 marzo 2008

ALTRI CINQUE, NON BASTA?


Non si sa se sia stato lo zolfo o l’idrogeno solforato. Sta di fatto che altri cinque operai sono morti, rapiti dalla una delle morti più assurde, quella sul lavoro.
Gli ultimi dati ufficiali dell’Inail, risalenti al 2006, parlano chiaro: in quell’anno ci furono più di 900mila incidenti sul lavoro, con più di 1.300 decessi, senza tener conto del lavoro nero e di tutti i casi che vengono fatti passare come malattie comuni. Una vera e propria guerra, che dura ormai da troppo tempo.
Oggi tutti si affrettano per approvare i decreti della legge 123 sulla sicurezza sul lavoro. È giusto, ma non basta.
Il 92% delle persone che sono morte sul lavoro, stava lavorando in piccole aziende, compresi i cinque operai di Molfetta. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che è proprio nelle aziende con meno di 15 dipendenti, dove non c’è l’applicazione dell’articolo 18, quello che impedisce di licenziare senza giusta causa, che si muore di più. In aziende così piccole, dove puoi essere licenziato in qualsiasi momento, si è disposti, pur di non perdere il posto di lavoro, a chiudere anche tutti e due gli occhi sulla mancanza delle norme di sicurezza.
Bastano questi pochi dati per capire dove sta il nocciolo del problema. Aumentare l’efficacia delle ispezioni e le sanzioni contro gli imprenditori inadempienti può essere anche giusto, ma se continuano a permanere le condizioni ricattatorie – compresi i contratti interinali e a progetto - che costringono i lavoratori a sopportare il rischio di perdere la propria vita, il problema non verrà risolto.
Solo se tutti i lavoratori, compresi i dipendenti delle aziende più piccole, saranno nelle condizioni di farsi rispettare senza il rischio di perdere il lavoro, si ridurrà drasticamente il numero degli incidenti e dei morti sul lavoro. L’articolo 18, quindi, deve essere esteso a tutti, senza alcuna discriminazione. Così come devono essere eliminate tutte le condizioni, anche legislative, che costringono milioni di persone a sopportare anni e anni di precariato.

Roma, 5 marzo 2008

Carlo Olivieri
medico umanista