giovedì 9 febbraio 2012

QUESTO NON È UN PAESE PER SCERIFFI


La Lega, IdV e il decreto “svuota carceri”

Non è facile ammetterlo, ma purtroppo siamo costretti a constatare che, dopo gli Stati Uniti, l’Italia è uno dei paesi in cui più facilmente possiamo incontrare uno sceriffo, o aspirante tale, girare nelle stanze dei palazzi istituzionali.
Il decreto cosiddetto “svuota carceri” approvato in Parlamento non può certo essere considerato una soluzione alla situazione tanto disumana quanto esplosiva che i detenuti sono costretti a vivere in quasi tutti gli istituti di pena italiani. Con un sovraffollamento misurabile in circa 22mila detenuti in più rispetto alla capienza reale di tali istituti, un decreto, come quello approvato, che in teoria farebbe uscire non più di 3.500 persone dal carcere per misure alternative di detenzione, come gli arresti domiciliari, non va oltre il semplice ed ennesimo provvedimento urgente, giusto per allentare l’emergenza per qualche mese, per poi ritrovarsi di fronte allo stesso problema.
Ma i gruppi parlamentari che si sono opposti a questo decreto non l’hanno fatto usando queste motivazioni. Sia la Lega che Italia dei Valori si sono scagliati contro il decreto del governo per ben altre ragioni, che potremmo definire ridicole, se non fosse per la drammaticità del contenuto di queste ragioni.
Di Pietro, leader di IdV, parla di “resa incondizionata dello stato a criminali e delinquenti”, come se l’azione della giustizia fosse un’azione di guerra e i detenuti fossero da considerare dei nemici, non dei cittadini che hanno commesso un reato.
I leghisti, che non si sono smentiti nemmeno stavolta per il loro stile perfettamente isterico, hanno messo a dura prova le proprie corde vocali urlando come dei forsennati nell’aula parlamentare. Non era facile comprendere il contenuto delle invettive, tanta era la veemenza con cui venivano lanciate, ma qualcuno è riuscito a capire, tra uno schizzo di bava e l’altro, che se fosse stato per loro quei delinquenti sarebbero rimasti a marcire per sempre in galera.
Eppure pensavamo che l’ex-magistrato avesse come musa la dea bendata e che i leghisti avessero come modello Alberto da Giussano. E invece no. Ora è chiaro chi sono i loro veri idoli.
Il leggendario sceriffo di Nottingham e Wyatt Earp, il famoso sceriffo di Dodge City: ecco chi sono i protagonisti dei sogni di Di Pietro e dei seguaci del senatùr. Ecco il vero motivo per cui i leghisti amano tanto le ronde: in fondo in fondo essi sognano di girare per le strade buie del Kansas padano facendo brillare sul proprio petto la fatidica stella a cinque punte e nelle proprie mani una sfavillante colt con cui impallinare extracomunitari e meridionali. Che pena.

Ci dispiace per tutti questi amanti di law and order (legge ed ordine), ma questo non è un paese per sceriffi.
Lo dice la Costituzione, innanzitutto, dove si può leggere, nell’articolo 27, che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Faremmo bene a ricordare tutti che quando parliamo di detenuti stiamo parlando di cittadini come tutti gli altri e che segregando ciò che ci disturba, in lager chiamati “carceri” o “centri di identificazione ed espulsione”, non risolveremo certo i nostri problemi ma li moltiplicheremo.
Cominciamo a prendere sul serio ciò che dice la nostra Costituzione. Solo così risolveremo i problemi dei detenuti e delle carceri.

Carlo Olivieri
umanista

martedì 7 febbraio 2012

I NODI AL PETTINE


Perché la crisi e come uscirne

Ci dispiace, ma siamo costretti a smentire tutti coloro che credono e affermano che la crisi economica attuale sia iniziata nel 2008. La condizione molto difficile in cui versano milioni di persone, in conseguenza di tale crisi, dovrebbe essere un sufficiente motivo per non indugiare in teorie che, nei casi in cui non siano dettate dalla malafede, sono il frutto di uno sguardo ingenuo sulla realtà. Quell’ingenuità che nasce, il più delle volte, dalla falsa credenza di essere rappresentanti della maggioranza o di essere la voce di organizzazioni che si ritengono ingenuamente indistruttibili, come le istituzioni dello Stato, le organizzazioni sindacali o le varie confederazioni delle più svariate categorie.
Non è mai stato segno di grandi capacità intellettive il fingersi di essere rappresentanti della cosiddetta maggioranza, ma ora, più che mai, perseverare in tale atteggiamento è l’inequivocabile segno di una miscela esplosiva di stupidità e arroganza.
La crisi attuale è il frutto di un lento ma inesorabile processo iniziato diversi decenni fa. Un processo che ha costruito una struttura con materiale difettoso, destinata, proprio per questo, a non reggere, perché se le fondamenta sono costituite da materiale non solido, il difetto poi si moltiplica e il futuro, cioè oggi, non potrà che vedere il crollo inevitabile di tale struttura.
Già durante la prima crisi economica del dopoguerra, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ‘70, era sufficientemente evidente che quella che sembrava esserne la causa, cioè l’inflazione, era solo uno strumento in mano al grande capitale per mettere in discussione gli accordi conclusi precedentemente, accordi che avevano acquietato i rapporti sociali tra il lavoro e il capitale. Tali accordi si erano basati su una falsa credenza: che il grande capitale si sarebbe accontentato della concessione dei lavoratori al mantenimento dell’economia di mercato e della proprietà privata dei mezzi di produzione, in cambio di una politica apparentemente democratica che garantiva protezione sociale e un progressivo miglioramento della qualità di vita.
Ecco il primo passo falso, il primo pilastro difettoso di una costruzione di cui ora, a distanza di decenni, stiamo vedendo l’inevitabile decadenza. Tutte le successive innumerevoli azioni dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali hanno seguito, più o meno acriticamente, le orme di quel “peccato originale”: il mondo del lavoro, invece di mettere in discussione, al fine di trasformarle, le strutture di un sistema che dava origine ai danni che provocava, si accontentava di denunciarlo, per poi, però, accontentarsi di qualche aumento di stipendio e di qualche garanzia sociale in più.
Si è trattato, in altre parole, di una vera e propria sottomissione ai dettami del grande capitale, in nome di poche briciole di benessere che sarebbero diventate sempre più esigue e illusorie. Qui le responsabilità della sinistra e dei sindacati sono state di dimensioni enormi.
Infatti, sotto la spinta dei mercati, formidabili strumenti in mano ad un grande capitale tutto dedito alla speculazione finanziaria, i governi di tutto il mondo capitalistico, nel corso dei successivi decenni e manovra dopo manovra, hanno inferto duri colpi anche a quelle poche conquiste che i lavoratori avevano raggiunto dal dopoguerra fino alla redazione dello Statuto dei lavoratori.
Gli effetti di questo processo sono oggi sotto gli occhi di tutti, ma non è detto che gli occhi siano aperti.
Infatti, ancora oggi ci troviamo di fronte ad una sinistra politica che non riesce a capire che non ha speranze se continua ad avere progetti politici che, nel migliore dei casi, sono buoni soltanto per alleviare i mali procurati da strutture che andrebbero radicalmente trasformate. Ancora oggi abbiamo sindacati che, nella maggioranza dei casi, non propongono più nulla, ma sanno solo mettersi in trincea per difendere quel poco che c’è ancora da difendere, perdendo, ovviamente, ogni volta. E così sarà, per esempio, anche con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: non basta cercare di difenderlo così com’è, ma bisognerebbe proporre di estenderlo a tutte le aziende, anche a quelle con meno di 15 dipendenti.

Ecco, quindi, che i nodi sono arrivati al pettine. Chi, nonostante tutto, non vuole vederli, non merita più alcuna fiducia da parte del popolo. Chi, nonostante sia così palese, non vuol vedere che il processo iniziato tanti anni fa è arrivato al capolinea, sta contribuendo allo sfacelo.

Ora è giunto il momento di iniziare un nuovo processo e non è detto che chi farà i primi passi sia già maggioranza. Non si tratta più di denunciare, ma di trasformare, e per fare questo non si può non iniziare, come possiamo leggere nel Documento del Movimento Umanista, dal porre “al primo posto la questione del lavoro rispetto al grande capitale; la questione della democrazia reale rispetto alla democrazia formale; la questione del decentramento rispetto alla discriminazione; la questione della libertà rispetto all’oppressione; la questione del senso della vita rispetto alla rassegnazione, alla complicità e all’assurdo”.

Carlo Olivieri
umanista