martedì 7 febbraio 2012

I NODI AL PETTINE


Perché la crisi e come uscirne

Ci dispiace, ma siamo costretti a smentire tutti coloro che credono e affermano che la crisi economica attuale sia iniziata nel 2008. La condizione molto difficile in cui versano milioni di persone, in conseguenza di tale crisi, dovrebbe essere un sufficiente motivo per non indugiare in teorie che, nei casi in cui non siano dettate dalla malafede, sono il frutto di uno sguardo ingenuo sulla realtà. Quell’ingenuità che nasce, il più delle volte, dalla falsa credenza di essere rappresentanti della maggioranza o di essere la voce di organizzazioni che si ritengono ingenuamente indistruttibili, come le istituzioni dello Stato, le organizzazioni sindacali o le varie confederazioni delle più svariate categorie.
Non è mai stato segno di grandi capacità intellettive il fingersi di essere rappresentanti della cosiddetta maggioranza, ma ora, più che mai, perseverare in tale atteggiamento è l’inequivocabile segno di una miscela esplosiva di stupidità e arroganza.
La crisi attuale è il frutto di un lento ma inesorabile processo iniziato diversi decenni fa. Un processo che ha costruito una struttura con materiale difettoso, destinata, proprio per questo, a non reggere, perché se le fondamenta sono costituite da materiale non solido, il difetto poi si moltiplica e il futuro, cioè oggi, non potrà che vedere il crollo inevitabile di tale struttura.
Già durante la prima crisi economica del dopoguerra, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ‘70, era sufficientemente evidente che quella che sembrava esserne la causa, cioè l’inflazione, era solo uno strumento in mano al grande capitale per mettere in discussione gli accordi conclusi precedentemente, accordi che avevano acquietato i rapporti sociali tra il lavoro e il capitale. Tali accordi si erano basati su una falsa credenza: che il grande capitale si sarebbe accontentato della concessione dei lavoratori al mantenimento dell’economia di mercato e della proprietà privata dei mezzi di produzione, in cambio di una politica apparentemente democratica che garantiva protezione sociale e un progressivo miglioramento della qualità di vita.
Ecco il primo passo falso, il primo pilastro difettoso di una costruzione di cui ora, a distanza di decenni, stiamo vedendo l’inevitabile decadenza. Tutte le successive innumerevoli azioni dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali hanno seguito, più o meno acriticamente, le orme di quel “peccato originale”: il mondo del lavoro, invece di mettere in discussione, al fine di trasformarle, le strutture di un sistema che dava origine ai danni che provocava, si accontentava di denunciarlo, per poi, però, accontentarsi di qualche aumento di stipendio e di qualche garanzia sociale in più.
Si è trattato, in altre parole, di una vera e propria sottomissione ai dettami del grande capitale, in nome di poche briciole di benessere che sarebbero diventate sempre più esigue e illusorie. Qui le responsabilità della sinistra e dei sindacati sono state di dimensioni enormi.
Infatti, sotto la spinta dei mercati, formidabili strumenti in mano ad un grande capitale tutto dedito alla speculazione finanziaria, i governi di tutto il mondo capitalistico, nel corso dei successivi decenni e manovra dopo manovra, hanno inferto duri colpi anche a quelle poche conquiste che i lavoratori avevano raggiunto dal dopoguerra fino alla redazione dello Statuto dei lavoratori.
Gli effetti di questo processo sono oggi sotto gli occhi di tutti, ma non è detto che gli occhi siano aperti.
Infatti, ancora oggi ci troviamo di fronte ad una sinistra politica che non riesce a capire che non ha speranze se continua ad avere progetti politici che, nel migliore dei casi, sono buoni soltanto per alleviare i mali procurati da strutture che andrebbero radicalmente trasformate. Ancora oggi abbiamo sindacati che, nella maggioranza dei casi, non propongono più nulla, ma sanno solo mettersi in trincea per difendere quel poco che c’è ancora da difendere, perdendo, ovviamente, ogni volta. E così sarà, per esempio, anche con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: non basta cercare di difenderlo così com’è, ma bisognerebbe proporre di estenderlo a tutte le aziende, anche a quelle con meno di 15 dipendenti.

Ecco, quindi, che i nodi sono arrivati al pettine. Chi, nonostante tutto, non vuole vederli, non merita più alcuna fiducia da parte del popolo. Chi, nonostante sia così palese, non vuol vedere che il processo iniziato tanti anni fa è arrivato al capolinea, sta contribuendo allo sfacelo.

Ora è giunto il momento di iniziare un nuovo processo e non è detto che chi farà i primi passi sia già maggioranza. Non si tratta più di denunciare, ma di trasformare, e per fare questo non si può non iniziare, come possiamo leggere nel Documento del Movimento Umanista, dal porre “al primo posto la questione del lavoro rispetto al grande capitale; la questione della democrazia reale rispetto alla democrazia formale; la questione del decentramento rispetto alla discriminazione; la questione della libertà rispetto all’oppressione; la questione del senso della vita rispetto alla rassegnazione, alla complicità e all’assurdo”.

Carlo Olivieri
umanista

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