sabato 12 marzo 2011

GIUSTIZIA PARALLELA


Roma, 11 marzo 2011

La presunta riforma della giustizia approvata dal consiglio dei ministri non esiste. Non esiste, non solo perché sarebbe, semmai, una contro-riforma, ma soprattutto perché rappresenta soltanto uno specchietto per le allodole, un’ennesima illusione berlusconiana che ha l’unico scopo di distrarre gli italiani.
Lo stesso presunto scontro tra governo e magistratura è una vera e propria farsa, perché ciò che risulta evidente, facendo le dovute eccezioni, è la persistenza di un sistema di connivenze tra la politica e la giustizia, come sta a dimostrare la sostanziale impunità dei reati più gravi, perpetrati, non solo da Berlusconi, ma da molti personaggi di spicco del mondo politico e imprenditoriale.
La proposta di riforma approvata dal governo è un atto di sostanziale continuità con questa tradizione italiana, in cui la “casta” assicura la propria sopravvivenza. Una casta che non ha mai avuto bisogno di promulgare legge anticostituzionali, come potrebbe apparire questa riforma, ma a cui è stato sempre sufficiente, nel passato come nel presente, semplicemente eludere con maestria la Costituzione.
Anche la maggior parte dell’attuale sedicente opposizione lo sa bene e usufruisce di tali connivenze. Al di là delle dichiarazioni di rito, anche molto infuocate, molti esponenti dell’attuale minoranza parlamentare hanno anch’essi i loro canali preferenziali attraverso i quali si alimentano le suddette connivenze tra politica e giustizia e si guardano bene dal metterle a rischio con proposte di reale riforma della giustizia.
In altre parole, dietro la facciata rappresentata da riforme che non verranno mai approvate e manifestazioni di protesta di politici e magistrati, esiste una quotidianità in cui domina un sistema politico-giudiziario che, mentre esercita senza scrupoli il proprio potere sulla stragrande maggioranza dei cittadini, mantiene in piedi un vero e proprio “stato parallelo” in cui la Costituzione non è mai esistita e mediante il quale viene garantita l’immunità e l’impunità di chi ne fa parte.
Come potrebbe essere spiegata altrimenti l’assoluta inazione nei confronti del problema rappresentato dall’estrema lunghezza della fase istruttoria dei processi e di quella dibattimentale, che genera una situazione di sostanziale ingiustizia e di violazione dei diritti umani, come emerge, tra l’altro, dalle frequenti condanne dell’Italia da parte della Corte internazionale di Strasburgo?
È un problema che dura da decenni eppure è sempre presente, aggravandosi ulteriormente di anno in anno. Non ci vuole molto a capire che l’unica vera riforma dovrebbe prevedere la trasformazione del sistema giudiziario da macchina burocratica in reale servizio al cittadino, con le stesse caratteristiche, di efficienza e di parità di condizioni di accesso, che connotano i servizi pubblici.
Dov’è tutto questo nella riforma sbandierata da Berlusconi e dal suo ministro-spalla Alfano? Dove sono i reali interessi dei cittadini? Quasi 5 anni per avere una sentenza civile e più di otto per una sentenza penale: di questo dovrebbe occuparsi una politica rivolta verso gli interessi della collettività.
Come dovrebbe occuparsi delle condizioni disumane in cui vivono i detenuti nella maggior parte delle carceri italiane, che hanno assunto sempre più le sembianze di istituti esclusivamente punitivi, anziché, come vorrebbe la Costituzione, di rieducazione e riabilitazione.
È con questo sistema di connivenze tra la politica e la giustizia, di cui usufruisce anche la criminalità organizzata, che alcuni magistrati e politici onesti hanno dovuto fare i conti, sacrificando, in alcuni casi, anche la propria vita.
La proposta di riforma di Berlusconi è figlia di questo sistema, l’ultimo atto di uno scontro tanto falso quanto spettacolare, messo in scena da interpreti di personaggi ben collaudati. Uno spettacolo che andrà avanti, però, solo fino a quando ci saranno spettatori.
E se un giorno il teatro rimanesse vuoto?

Carlo Olivieri

lunedì 7 marzo 2011

SIAMO SICURI CHE SIA SOLO UN PROBLEMA DI “MELE MARCE”?


“Quegli uomini mi hanno uccisa dentro”. La frase è della donna di 32 anni che ha denunciato di essere stata violentata da tre carabinieri e da un vigile in una caserma di Roma. Se le indagini dovessero confermare la denuncia, sarebbe assolutamente secondario se fisicamente fosse stato solo uno o tutti e quattro. Anche chi ha solo assistito e non ha denunciato è altrettanto responsabile.
L’evento potrebbe suscitare, oltre che orrore, anche una certa meraviglia, visto che i presunti autori della violenza fanno parte di quelle istituzioni che si ergono a difensori dei cittadini. Ma come? Nemmeno dei carabinieri ci si può fidare? A questa domanda sarebbe facile rispondere con altre domande: con tutti i casi di pedofilia emersi specialmente negli ultimi anni, affideremmo i nostri figli ad un prete? E tenendo conto che la maggior parte degli abusi e delle violenze avvengono dentro le mura domestiche, perché ci si dovrebbe fidare ciecamente di un padre, di un nonno, di uno zio o di un cugino? E perché la meraviglia non ci assale quando gli autori di una violenza sessuale sono, invece, degli immigrati rumeni, somali o nordafricani?
Le categorie che siamo stati portati a costruire dentro di noi non corrispondono alla realtà, ma sono funzionali soltanto a riproporre una divisione illusoriamente tranquillizzante: come si faceva una volta a scuola, continuiamo a riprodurre a livello sociale quella lavagna in cui un’inesorabile linea verticale divideva i buoni dai cattivi.
Nella colonna dei “buoni” ci sono i carabinieri, i poliziotti, i padri e le madri di famiglia, i preti, le suore e i politici che promettono posti di lavoro; nella colonna dei “cattivi” ci sono invece gli stranieri immigrati, i rom, i giovani che scrivono sui muri, le prostitute e i mendicanti che rovinano il decoro del marciapiede sotto casa nostra e i cosiddetti malati di mente che potrebbero aggredirci da un momento all’altro e che, semplicemente perché esistono, mettono in crisi il nostro far finta di essere sani.
La violenza di cui è stata vittima la donna nella caserma di Roma è l’ultima di una serie di violenze che aveva già subito. Prima di essere vittima di una violenza sessuale, aveva già subito violenza fisica da parte di un uomo che la picchiava e per cui era fuggita dalla Lombardia ed era già vittima di una violenza di tipo economico, perché il giorno in cui ha subito l’abuso sessuale era stata scoperta mentre rubava due magliette in un supermercato, un reato evidentemente associato al fatto che era senza soldi né lavoro e con una bambina da mantenere.
La violenza si presenta sotto varie vesti: fisica, economica, sessuale, razziale, religiosa, politica, ecc. e ogni volta che si esprime contribuisce a dividere gli uomini in oppressi e oppressori.
Se la donna non fosse stata vittima di violenza economica probabilmente non sarebbe stata indotta a rubare e quindi non sarebbe finita in quella maledetta caserma.
E ancora: se non fosse stata vittima di violenza fisica da parte del suo uomo non sarebbe stata costretta a fuggire e probabilmente non si sarebbe trovata in condizioni economiche così misere da rendere molto più probabile il reato di furto da lei commesso.
Quando impareremo a non nasconderci più dietro un elenco di buoni e di cattivi? E se fosse anche questo elenco un atto di violenza? Solo quando riconosceremo la radice violenta dei problemi che affliggono la società umana avverrà la vera rivoluzione che determinerà il passaggio dalla preistoria alla storia pienamente umana.
Diceva un nostro caro amico, Silo: “Neppure quanto di peggio c’è nel criminale mi è estraneo. E se lo riconosco nel paesaggio, lo riconosco anche in me. E’ per questo che voglio superare in me e in ogni essere umano ciò che lotta per sopprimere la vita”.
A che serve, come già stanno facendo e come già hanno fatto in passato, etichettare gli stupratori di turno come delle “mele marce”? Serve ancora una volta e soltanto a nascondere a se stessi e agli altri che la violenza, per esempio, è alla base della formazione in tutte le istituzioni deputate alla pubblica sicurezza. Quella stessa violenza che porta un poliziotto a picchiare ingiustificatamente un manifestante disarmato o che spinge un soldato a torturare un prigioniero. Non esiste una violenza più giustificata di un’altra.
Se non ci fosse la violenza alla base della formazione di carabinieri, poliziotti, soldati, ma soprattutto il rispetto dell’essere umano in quanto tale, il numero di queste cosiddette “mele marce” sarebbe molto minore, se non uguale a zero. Ciò che succede, invece, è che la violenza, che è dentro ognuno di noi, non viene riconosciuta e superata, ma viene sfruttata e alimentata per essere più efficaci.
Più efficaci in cosa? A mantenere l’ordine costituito? A picchiare meglio senza essere ripresi da qualche videocamera? A rendere più punitivo un carcere? Ad uccidere il nemico con una sola pallottola?
Da un albero di questo tipo le probabilità che si producano delle “mele marce” non possono che essere pericolosamente elevate. E siccome i problemi si risolvono soltanto quando si affrontano alla radice è evidente che anche nelle istituzioni che si ergono a difensori dei cittadini dovranno cambiare parecchie cose, senza illudersi di aver risolto il problema eliminando qualche mela guasta dal cesto.


Carlo Olivieri

martedì 1 marzo 2011

Morte di un altro militare italiano in Afghanistan: NON CI ABITUEREMO MAI


28 febbraio 2011


Non ci abitueremo mai.

Un altro militare italiano, il trentasettesimo, è morto in Afghanistan in seguito ad una vera e propria azione di guerra, in cui sono rimasti feriti gravemente altri quattro militari.

Non ci abitueremo mai.

Nonostante ad ogni uccisione di soldati, le istituzioni - dal presidente della Repubblica al capo del governo, dal ministero della Difesa a tutto il Parlamento che, meccanicamente, approva ormai da nove anni il rifinanziamento di quella missione in Afghanistan - tendano a far passare queste morti come un’inevitabile prezzo da pagare, noi non ci abitueremo mai.

A che cosa ci dovremmo abituare? Alla morte inutile di migliaia di afgani? Ai più di 2.300 militari morti in nove anni di missione Isaf in Afghanistan?

A che cosa dovremmo credere? Al fatto che questa è una missione di pace? Come fa ad essere “di pace” una missione in cui il numero di morti continua ad aumentare, visto che si è passati da 521 militari morti nel 2009 a 712 nel 2010?
Perché le operazioni di assistenza medica alla popolazione locale vengono svolte da militari armati di tutto punto che se ne vanno in giro su dei blindati? Sono veramente solo operazioni a carattere umanitario? Perché dovremmo credere ad occhi chiusi a queste versioni?

Non ci abitueremo mai, signor presidente della Repubblica, nonostante i suoi “sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei familiari del caduto”.
Non ci abitueremo mai e non vi crederemo mai, signor ministro della Difesa, quando si “inchina davanti alla memoria di questo ragazzo”.
Non ci abitueremo mai e tantomeno vi crederemo, signor presidente del Senato, quando esprime il suo profondo dolore per “un'altra vittima che cade immolandosi sull'altare della democrazia”.
Non ci abitueremo mai, signor presidente della Camera, nonostante il suo apprezzamento per “il coraggio, la professionalità e lo spirito di sacrificio con cui i nostri militari svolgono la loro opera in questo tormentato Paese”.
Non ci abitueremo mai, signore ministro degli Esteri, e soprattutto esprimiamo tutto il nostro ripudio quando dichiara che “il nostro dovere” sarebbe quello di “rispettare gli impegni internazionali che abbiamo preso con la Nato e con le Nazioni Unite”.

Noi non ci abitueremo mai a quel tipo di impegni che implicano il dolore, la sofferenza e la morte di altri esseri umani. Se questi sono i vostri impegni, nostro impegno sarà sempre quello di denunciare la vostra violenza e di lottare contro tutti coloro che, come voi, usano la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti.

Carlo Olivieri