Dal prossimo gennaio si potrà ancora andare in pensione con 35 anni di contributi, mentre l’età minima per andare in pensione non sarà innalzata così come era previsto dallo “scalone” del precedente governo, ma sarà di 58 anni. Molti hanno creduto alle parole del presidente del consiglio, riportate da tutti i giornali: “Abbiamo fatto giustizia. Abbiamo eliminato lo scalone”. Ingenui. Il piattino preparato dal governo somiglia molto a ciò che succede quando acquistiamo un bene e lo paghiamo a rate: all’inizio non paghiamo niente, ma poi alla fine del pagamento rateizzato avremo sborsato più soldi di quelli che avremmo speso se avessimo pagato subito.
Infatti è vero che a gennaio del 2008 non ci sarà l’innalzamento dell’età pensionabile così com’era previsto dallo scalone di Maroni, ma dopo appena 18 mesi, a luglio del 2009, scatterà il meccanismo delle quote. Dal 2009 si andrà in pensione con quota 95, ma con un'età minima di 59 anni: ciò significa che, per chi andrà in pensione a questa età, gli anni di contribuzione saliranno a 36. Tempo altri 18 mesi ed ecco che, dal primo gennaio 2011, la quota salirà a 96, con un'età minima di 60 anni. Infine, dulcis in fundo, dal primo gennaio 2013 la quota salirà a 97, con un'età minima di 61 anni.
Ancora una volta si conferma ciò che stiamo affermando da molto tempo: la differenza tra un governo di centrosinistra ed uno di centrodestra è sempre più formale e sempre meno sostanziale. Lo “scalone” del governo Berlusconi viene sostituito dagli “scalini” del governo Prodi: cambia la forma, ma la sostanza rimane la stessa.
Sono tanti coloro che, per sostenere la necessità di innalzare l’età pensionabile, paragonano l’Italia ad altri paesi europei. È facile conoscerli: scrivono sui giornali più diffusi e siedono anche in Parlamento. Dicono, per esempio, che non è possibile che in Italia ci sia gente che va in pensione prima dei 60 anni o con “soli” 35 anni di contributi, mentre in Olanda non si va in pensione prima di aver compiuto 65 anni; in Svezia sono richiesti 65 anni di età e 40 anni di contributi; in Germania 63 anni e 35 di contributi; in Francia, dal primo gennaio, si dovrà aver versato 40 anni di contributi; in Svizzera 65 anni e 44 di contributi.
È strano ma questi signori, quando fanno tali paragoni, dimenticano sempre di aggiungere che in questi paesi europei il reddito medio è in media del 50% superiore rispetto a ciò che percepiscono i lavoratori italiani, che hanno uno stato sociale molto più efficiente e tassi di occupazione sensibilmente superiori al nostro.
È strano, ma si dimenticano anche di considerare il fatto che in Italia, su 16 milioni di pensionati, la metà percepisce meno di 750 euro e di questi 8 milioni di pensionati, l’80% vive con meno di 500 euro al mese. È la prospettiva di vivere l’ultima parte della propria vita in povertà a spingere, già oggi in concreto, molti lavoratori ad andare mediamente in pensione a più di 61 anni.
Ma queste non sono le uniche amnesie. Le funzionalità cognitive di tanti politici e opinionisti, nonché di economisti ed esperti di previdenza, cominciano seriamente a preoccupare quando ci si accorge che, quando affermano che l’Inps ha un bilancio disastroso perché le uscite dovute al pagamento delle pensioni risultano talmente superiori alle entrate da rappresentare una minaccia devastante per i conti dello Stato, dimenticano che sin dal 1988 l’Inps ha due casse separate, una per gestire le entrate e le uscite del “Fondo pensioni lavoratori dipendenti” e l’altra per gestire gli interventi assistenziali (Gias).
È ovvio che se si dimentica questo non trascurabile aspetto e si considerano le due casse come se fosse una sola, si arriva a sostenere che la previdenza costa ai contribuenti oltre 70 miliardi l'anno.
Invece, guarda caso, la prima cassa – cioè quella che gestisce solo le pensioni – avrà addirittura un avanzo di esercizio, nel 2007, di quasi 3,5 miliardi. In altre parole i contributi versati superano le pensioni che escono. Il Fondo delle pensioni dei lavoratori dipendenti diventa passivo solo perché si è dovuto accollare l’onere di ex-Fondi, come l’Inpdai (ex Fondo dirigenti di azienda), che segnano un passivo di 6,3 miliardi. Ma pur considerando il peso di questo onere, le pensioni incideranno sul Pil del 2007 solo per il 9,7%, che sarebbe il 7,4% senza il peso degli ex-Fondi.
Siccome tutti questi dati vengono dimenticati, insieme al fatto che i contribuenti continuano ad aumentare ogni anno, i suddetti politici, opinionisti, economisti ed esperti di previdenza, continuano a prevedere che, se non si aumentano drasticamente l’età pensionabile e gli anni di contributi, nel 2040 le pensioni supereranno il 16% del Pil, mandando in sfacelo i conti dello Stato.
D’altronde è ovvio che, se si soffre di tutte queste amnesie, alla lunga ci si deprime e si diventa pessimisti. Inoltre, mentre si dimenticano tutti i dati più recenti, non si scordano le antiche passioni.
E allora perché meravigliarsi di questa riforma delle pensioni se si tiene in conto il fatto che l’attuale ministro dell’economia, Padoa-Schioppa, è stato membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea e in tale veste ha dichiarato: “Deve essere innalzata l’età effettiva di pensionamento ... che, nonostante il continuo aumento della speranza di vita, negli ultimi decenni si è ridotta. Attualmente, nell’area dell’euro l’età media effettiva di cessazione dell’attività lavorativa per gli uomini è compresa tra i 58 e i 64 anni; le donne vanno in pensione prima. Di conseguenza, il tempo medio che i pensionati trascorrono in pensione è salito a circa 20 anni, contro i 13 degli anni Sessanta” (Bollettino Bce, aprile 2003).
Come non deve aver dimenticato le sue antiche passioni lo stesso presidente del consiglio, Romano Prodi, che quando era a capo dell’Iri ha condotto in porto la privatizzazione di un considerevole numero di aziende, dando un suo personale e sostanziale contributo a far diventare lo Stato uno strumento del capitale finanziario europeo e mondiale.
Così siamo giunti al nodo del problema. Ovviamente dietro le citate dimenticanze ci sono invece menzogne, omissioni e manipolazioni. Lo stadio dell’economia di mercato si è esaurito ed ora il grande capitale cerca di disciplinare la società in modo da far fronte al disastro che esso stesso ha generato. Per fare questo deve rendere lo Stato un docile strumento nelle sue mani. Non è un caso che da alcuni anni, ormai, i capi di governo non sono più uomini politici, ma banchieri, grandi imprenditori e finanzieri. In alternativa gli unici politici che riescono a ricoprire la carica di capo del governo sono solo fantocci in mano al grande capitale.
Se si guarda la riforma delle pensioni da questo punto di vista, la questione delle quote e degli scalini diventa secondaria e acquista un’importanza di gran lunga maggiore ciò che è stato deciso collateralmente all’innalzamento dell’età pensionabile, cioè il meccanismo per determinare il valore dei “coefficienti di rendimento previdenziale”.
Il taglio dei coefficienti sarà attuato dal 2010. Una commissione avrà il compito di valutare e proporre le modifiche al sistema dei coefficienti entro il 2008. L'aggiornamento sarà effettuato ogni tre anni dal ministero dell'Economia e da quello del Lavoro, senza parti sociali, quindi automaticamente e senza obbligo di contrattazione. Un aggiornamento che verrà deciso sulla base di parametri che nulla hanno a che vedere con i conti previdenziali, come l'andamento demografico e l'aspettativa di vita, il Pil nazionale, le dinamiche macroeconomiche, gli obiettivi di bilancio statale.
Risultato? Sulle pensioni non si deciderà più in base ad una contrattazione con le parti sociali, ma lo farà direttamente e unicamente il governo. In questo modo la cassa previdenziale sarà ridotta ad una cassa completamente a disposizione dello Stato. E chi sta gestendo lo Stato? Lo abbiamo detto: progressivamente lo Stato è già diventato uno strumento nelle mani del grande capitale.
Se a questo si aggiunge la spinta a consegnare i propri soldi agli speculatori di borsa, tramite la previdenza complementare e il trasferimento del TFR nei fondi pensione, il grande capitale, oltre ad occupare lo Stato, mette anche le mani nelle tasche di milioni di lavoratori e pensionati.
Uno degli aspetti più aberranti di questa vicenda è il fatto che, per giustificare questa riforma, si fa appello alla solidarietà tra le generazioni. L’aberrazione sta nel fatto che a parlare di solidarietà sono gli stessi signori che continuano a chiudere i migranti provenienti dai paesi poveri nei centri di permanenza temporanea e che si rifiutano di usare i soldi che svaniscono con la speculazione finanziaria per risolvere, a breve termine e per vaste aree del mondo, i problemi della piena occupazione, della nutrizione, della salute, della casa, dell’istruzione. Sono gli stessi signori che, ognuno nel suo specifico, contribuiscono al controllo, da parte del grande capitale, dei mezzi di comunicazione e di informazione, e quindi della soggettività delle persone, determinando, in questo modo, la disintegrazione del tessuto sociale e delle vecchie forme di solidarietà.
Ci vuole proprio una bella faccia tosta ad evocare la solidarietà mentre si lavora costantemente, ogni giorno per anni e anni, alla distruzione di ogni sua forma.
Bisogna sottrarsi a questa morsa schizofrenica. Per l’ennesima volta, anche per questa riforma delle pensioni, i diretti interessati, cioè i lavoratori, sono stati ridotti alla condizione di spettatori su questioni che riguardano direttamente le loro condizioni di vita. I rappresentanti sindacali hanno dimostrato anche stavolta una totale inadeguatezza.
Lottare affinché si realizzi un reale e vincolante referendum tra i lavoratori è quindi sacrosanto. Ma è evidente che ancor più necessaria è una lotta, non solo nel campo del lavoro e della previdenza, ma politica, che abbia come primo obiettivo la sottrazione dello Stato dalla morsa del capitale finanziario internazionale, affinché si restituisca alla società l’autonomia che le è stata rubata.
Roma, 26 luglio 2007
Carlo Olivieri