domenica 30 dicembre 2007

L'ULTIMA TORCIA


Anche Giuseppe è partito. Il nome di Giuseppe Demasi, il settimo operaio di 26 anni ustionato nell'incendio del 6 dicembre alla Thyssenkrupp di Torino, si aggiunge a quelli di Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo e Rosario Rodinò.

Non dimenticheremo i loro nomi, le loro vite. Vite che, in un solo anno, se ne sono andate insieme a quelle di oltre mille altre persone, che in una fabbrica, in un cantiere o in ufficio cercavano di guadagnarsi la possibilità di mantenere le proprie famiglie, di mandare i propri figli a scuola, di curare i propri cari nel miglior modo possibile.

Non dimenticheremo, però, neppure i veri responsabili di questi che non possono essere chiamati in altro modo se non “omicidi”. E siccome sono omicidi, i responsabili non possono non essere definiti “criminali”.

Criminali sono i padroni delle grandi multinazionali, come la Thyssenkrupp, che pur di accumulare miliardi da destinare alla speculazione finanziaria, scelgono ogni giorno di giocare con la vita degli operai, risparmiando sulle norme di sicurezza.

Criminali sono tutti i governi, come quello italiano, che hanno rinunciato alla propria funzione politica per far diventare lo Stato un semplice strumento del capitale finanziario internazionale.

Criminali sono quelle banche che prima concedono investimenti sia alle aziende che alle istituzioni statali e poi pretendono, come i peggiori ricattatori e usurai, la garanzia di avere l’ultima parola sulle decisioni fondamentali.

Ed ecco che l’intera società, non sono il mondo del lavoro, è diventata ostaggio di questa banda di teppisti in giacca e cravatta.
Anche questa è una guerra. Una vera e propria guerra con i suoi morti e i suoi feriti, con le famiglie distrutte e con gli affetti stroncati. E se si tratta di guerra, l’unico modo per fermarla è far salire forte la voce della nonviolenza.
La stessa pace che si invoca per fermare le guerre che si combattono a colpi di missili e bombe, deve essere invocata per fermare la guerra che si combatte sui posti di lavoro a colpi di sfruttamento e di precarietà.
È una lotta di liberazione. Comunque. Sia che si tratti di liberare i paesi dalle bombe nucleari e dagli eserciti occupanti, sia che si tratti di liberare la società dagli speculatori e dagli strozzini. Solo così Giuseppe, Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario e tanti altri non saranno partiti inutilmente. Per ogni torcia che si è spenta se ne accendano mille altre.


Roma, 30 dicembre 2007

Carlo Olivieri
medico umanista

sabato 8 dicembre 2007

TORCE FLESSIBILI


Che cosa credete che volessimo intendere quando diciamo che il neoliberismo rappresenta un sistema che schiaccia l’essere umano? I fatti dimostrano ciò che vogliamo dire: finora sono morti quattro esseri umani, e altri tre sono in fin di vita, mentre lavoravano alla ThyssenKrupp di Torino. E non è stato un “incidente”.
Perché crediamo che la cosiddetta “flessibilità” va bene solo al grande capitale ed è invece una sciagura per i lavoratori? Perché siamo contro il progresso? Questo sarebbe il progresso? Costringere giovani operai – quali erano Antonio di 36 anni, Roberto di 32, Angelo di 43 e Bruno di 26 - a lavorare 12 ore e più al giorno, altrimenti rischiano il licenziamento? Questo non è progresso, è il medioevo.
Che cosa credete che volessimo intendere quando diciamo che la sicurezza è ben altro, non la “caccia ai romeni”? Sicurezza significa anche trovare gli estintori pieni e non vuoti, come li hanno trovati i compagni di lavoro di Antonio che hanno cercato di spegnere le fiamme che lo avvolgevano come una torcia. Sicurezza significa poter subito telefonare per chiedere aiuto e non alzare la cornetta e scoprire che non c’è linea, come è successo ai compagni di lavoro di Roberto.
Dove sono ora i teorici della precarietà e della flessibilità? Dove sono i predicatori del liberismo e della fine dello stato sociale? Dove sono tutti gli opinion maker che ogni giorno ci inondano di parole inneggianti le grandezze di un sistema politico-economico – quale è il neoliberismo - che invece è solo selvaggiamente capitalista, che rappresenta in fondo l’ambito migliore dove possono tranquillamente sguazzare i peggiori criminali, sempre pronti ad estirpare qualsiasi diritto, sul lavoro come nella vita.
Porteremo sempre con noi questi nomi: Antonio, Roberto, Angelo, Bruno. Ed ogni volta che sentiremo un capo del governo, un opinionista, un capitalista o un sindacalista, parlare di flessibilità, non gli diremo niente: gli ricorderemo solo questi nomi.

Roma, 8 dicembre 2007

Carlo Olivieri
medico umanista

NON SOLO IL 10 DICEMBRE, MA PER SEMPRE


Anche oggi è un buon giorno.
Un buon giorno per guardare,
oltre i miei interessi,
l’umano nell’altro.
Per far allargare i confini della democrazia,
fino alla totale autogestione.
Per far evolvere i rapporti sociali,
fino alla totale cooperazione.

Anche oggi è un buon giorno.
Un buon giorno per fermare i disastri
del patriottismo e del nazionalismo.
Per far crescere la libertà e quindi la capacità di critica,
perché troppo cose sono date per scontate e prestabilite.
Per fermare l’umiliazione di tanti esseri umani,
per l’affermazione della dignità di ognuno.

Anche oggi è un buon giorno.
Un buon giorno per contribuire
a quel mutamento radicale dello schema di potere
e dell’organizzazione della società,
quel mutamento così necessario
per fermare il disastro ecologico.
Per far sì che l’economia non sia più
sinonimo di sfruttamento dell’uomo,
ma solo uno strumento al servizio dell’essere umano.

Anche oggi è un buon giorno.
Un buon giorno per insegnare alle nuove generazioni
che la realtà non è qualcosa di immutabile,
ma è oggetto di trasformazione da parte dell’essere umano.
Per affermare che la fede non è il fanatismo che distrugge,
ma può essere una grande forza che apre verso il futuro.
Per far sì che aumenti il rispetto delle diversità,
tutte le diversità, verso una nazione umana universale,
multietnica, multiculturale e multiconfessionale.

Anche oggi è un buon giorno.
Un buon giorno per essere un po’ più liberi,
consapevoli che lo saremo sempre di più
quanti più saremo ad essere liberi.
Un buon giorno per far sì che la scienza serva all’essere umano,
al suo sviluppo e alla sua armonia con la natura,
e non più per la distruzione
e per la manipolazione della coscienza sociale
e del comportamento di massa.

Anche oggi è un buon giorno.
Un buon giorno per affermare ancora una volta
che la solidarietà, la tolleranza e l’uguaglianza
non possono mancare nelle relazioni umane,
in quanto condizioni indispensabili
per l’applicazione effettiva dei diritti umani universali.

Anche oggi può essere un buon giorno
per i diritti umani.
Anche se non è il 10 dicembre,
può essere un buon giorno.

Roma, 8 dicembre 2007


Carlo Olivieri

medico umanista

martedì 4 dicembre 2007

Ma perché la Chiesa ce l’ha così tanto con l’essere umano?


Le recenti esternazioni del papa confermano, da un certo punto di vista, questo risentimento nei confronti del genere umano che ha caratterizzato gran parte della storia della Chiesa cattolica.
Sia nell’ultima enciclica papale “Spe salvi”, che nelle affermazioni che hanno caratterizzato l’incontro di Benedetto XVI con le ong di ispirazione cattolica, si avverte l’eco di un antico rancore, che probabilmente ha sempre ispirato la Chiesa nel suo negare all’essere umano il diritto e la capacità di autodeterminazione.

In poche frasi il papa ha praticamente gettato alle ortiche gli ultimi tre secoli di storia umana. Secoli in cui tutto, dalla politica alla scienza, dalla cultura alla filosofia, ha contribuito invece ad un progresso della civiltà umana senza precedenti nel resto della sua storia antecedente.
Prima la filosofia e poi la politica, per esempio, hanno prodotto ideologie progressiste che hanno contribuito, almeno in alcune zone del mondo, ad avanzamenti inimmaginabili nel campo dei diritti umani e hanno contribuito, inoltre, a dare quella forza morale necessaria per uscire dalle sciagure prodotte dalle monarchie assolute prima e dal nazifascismo poi.
E che dire dei progressi provenienti dagli avanzamenti della scienza? La storia è piena di esempi in cui ogni volta che uno studioso ha avuto il coraggio di affrontare le chiusure e le condanne da parte delle istituzioni ecclesiastiche, si è sempre registrato un avanzamento nelle scoperte che l’uomo faceva su se stesso e sull’ambiente che lo circondava. Innumerevoli volte si è verificata questa concomitanza. Come mai?

Sembra proprio che nella Chiesa ci sia la profonda convinzione che l’essere umano non sia in grado di camminare da solo. Anzi, ogni volta che prova a farlo, si scagliano su di lui le ire della curia. Perché?
Il papa ha parlato della necessità di affermare “valori irrinunciabili” contro un certo “relativismo morale” che dominerebbe istituzioni internazionali come l’Onu, che dimenticherebbero “la dignità dell’uomo”. Sta di fatto che, nonostante l’Onu debba essere riformata in molti aspetti, proprio grazie ad organizzazioni internazionali come questa oggi esiste una Dichiarazione dei diritti umani, sulla cui base nessun sopruso ai danni della “dignità dell’uomo” può più passare inosservato ed a cui si guarda come un obiettivo da raggiungere per tutti gli esseri umani.

Inoltre da quale pulpito, verrebbe da dire, viene la predica?
Sembra, infatti, alquanto difficile rintracciare questi “valori irrinunciabili” invocati da tutti i papi, compreso Benedetto XVI, quando, facendo un veloce resoconto storico, scopriamo che nell’arco di 1000 anni, dal 782 al 1783 – anno in cui viene bruciata sul rogo l'ultima strega, in Polonia – sono centinaia di migliaia le persone che vengono “cristianamente” massacrate, violentate, arse vive. I “quemaderos” di Siviglia, tanto per fare un esempio, erano quattro enormi forni circolari, ognuno dei quali «ospitava» fino a 40 condannati, introdotti vivi: per «giustiziarli» occorrevano dalle 20 alle 30 ore di supplizio Questi forni funzionarono ininterrottamente per oltre tre secoli e vennero chiusi da Napoleone nel 1808.

Altrettanto difficile risulta rintracciare la “dignità dell’uomo”, sempre per fare qualche esempio, nella bolla papale con cui, nel 1555, venne ordinato il confino degli ebrei nei ghetti, confino che trovava la "giustificazione" diretta nella teologia cattolica: "E' assurdo e sconveniente in massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di essere protetti dall'amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo a noi, mostrare tale gratitudine verso i cristiani".
Roba vecchia, direbbe qualcuno. Non proprio. La Chiesa cattolica, fino al XIX secolo, ha perpetrato abitualmente il crimine del rapimento dei bambini ebrei, che venivano sottratti ai genitori per indottrinarli coattivamente al culto della religione cattolica.
Nel 1946 il Vaticano inviò un documento al nunzio apostolico in Francia, Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, a cui ordinava di “trattenere” i bambini ebrei nascosti in istituti cattolici durante l'olocausto: «I bambini che sono stati battezzati non possono essere affidati a istituzioni che non assicurerebbero loro un'educazione cristiana». La ferma intenzione del Papa di non riconsegnare i figli ai loro genitori è inequivocabile: «Se i bambini sono stati affidati dai genitori ed essi li rivogliono, possono essere loro restituiti, purché non siano stati battezzati. Si fa presente che questa decisione della Congregazione del Sant'Uffizio è stata approvata dal Santo Padre».
Un leader religioso o un capo di governo che facesse una cosa simile oggi sarebbe messo in prigione.

È difficile poi rintracciare la “dignità dell’uomo” nei campi di sterminio allestiti, negli anni 1942-43, dai cattolici ustascia in Croazia, agli ordini del dittatore Ante Pavelic, un cattolico praticante accreditato e ricevuto regolarmente da Pio XII. In questi campi vennero soppressi serbi cristiano-ortodossi ed anche un cospicuo numero di ebrei.

Infine non si vede traccia della “Spe salvi” – la speranza che salva – negli innumerevoli crimini nei confronti di minorenni ad opera di preti finora sempre coperti dall’omertà ecclesiastica o nelle denuncie nei confronti del clero cattolico per un loro coinvolgimento nei massacri in Rwanda nel 1994: due anni dopo quei massacri – ma probabilmente ancora oggi - molti cattolici a Kigali, per la complicità a loro avviso dimostrata di una parte dei sacerdoti, non mettono più piede nelle chiese della città. Quasi non v’è chiesa nel Rwanda in cui fuggitivi e profughi - donne, bambini, vecchi - non siano stati brutalmente picchiati e massacrati. Vi sono testimonianze in base alle quali i religiosi hanno rivelato i nascondigli dei Tutsi, lasciandoli in balìa delle milizie Hutu armate di machete.

Indubbiamente vi sono stati - e ci sono ancora - numerosissimi esempi di preti e suore che hanno dedicato la loro vita all’evoluzione e alla difesa dei diritti umani, ma quasi sempre non sono stati appoggiati dai vertici ecclesiastici, se non addirittura ostacolati nella loro opera. Forse la loro colpa è ancora una volta la fede nelle possibilità di autoliberazione dell’essere umano?

A quanto pare la Chiesa cattolica dovrà prima o poi, se vuole continuare ad esistere, prendere una decisione estremamente importante: riconciliarsi con l’essere umano.
Una decisione che non riguarda solo la Chiesa, ovviamente, ma anche le istituzioni rappresentanti ufficiali di tutte le religioni in nome delle quali milioni di donne, uomini, vecchi e bambini sono stati vittime dei genocidi, delle torture, degli assassini, del razzismo, dell'intolleranza, della superstizione, dell'oscurantismo, della prevaricazione dei diritti.

Roma, 4 dicembre 2007

Carlo Olivieri

medico umanista

sabato 1 dicembre 2007

NON REAZIONE, MA CREAZIONE


Continua il cosiddetto dibattito sul decreto-sicurezza varato dal governo. Mentre la sinistra cerca di mitigarlo mettendo l’accento sulla responsabilità individuale, come d’altronde recita la nostra bistrattata Costituzione, in modo tale che il provvedimento non abbia troppo il sapore razzista di un’espulsione di massa, la destra vorrebbe espellere qualsiasi straniero, meglio se romeno, non appena fa un semplice starnuto non previsto.
Questo dibattito non ci appassiona. Forse perché facciamo parte di quella maggioranza di italiani che, almeno a quanto risulta da un sondaggio di Swg e commissionato dall’istituto di ricerca creato dall’Associazione dei Comuni Italiani, pagherebbero volentieri più tasse se queste fossero a favore di un miglioramento della sanità, dell’educazione e per un’aria più pulita, mentre solo una minoranza – solo il 23% - lo farebbe per avere più polizia e più sicurezza.
E allora ci accorgiamo che ancora una volta la politica di palazzo, compresi quei sindaci che dovrebbero essere più vicini alle esigenza dei cittadini, preferisce spendere milioni di parole e promulgare decreti e leggi inutili, anziché applicarsi sulle vere sicurezze a cui il popolo tiene: la sicurezza di un lavoro stabile, la sicurezza di essere curati e istruiti nel migliore dei modi, la sicurezza di poter ancora respirare un’aria pulita.
Questo dibattito non ci appassiona perché, al di là delle minuscole differenze tra i due schieramenti, dietro l’ultimo decreto, qualunque sia la forma che prenderà, la politica non c’è più.
Quando l’azione politica si riduce, come in questo caso, a pura reazione, di politico non è rimasto un bel niente.
Non potremmo appassionarci, d’altronde, ad una politica che è diventata esclusivamente amministrazione della paura, gestione del presente, se non pura repressione in nome di una legge, che sarà pure teoricamente uguale per tutti, ma di fronte alla quale, nella pratica, non tutti sono uguali. Una politica, insomma, che è diventata puro esercizio di potere. E non solo in Italia, ovviamente.


Non reazione, ma creazione.
Non vogliamo, stavolta, descrivere quali potrebbero essere nel dettaglio le proposte alternative. Vogliamo sottolineare invece la necessità di un’azione politica dettata, non dalla reazione, ma dalla creazione. Gli atti specifici possono essere molteplici e anche molto diversi tra loro, ma la matrice politica da cui nascerebbero dovrebbe essere sempre la creazione, mai la reazione.
Se di fronte al razzismo e alla schiavitù, per esempio, la risposta fosse stata dettata solo dalla reazione, queste due piaghe dell’umanità sarebbero ancora molto diffuse, molto di più di quanto lo siano attualmente. Soltanto quando la reazione ha lasciato il posto alla creazione, indicando finalmente la via per una reale emancipazione degli oppressi, le false ragioni della discriminazione e della violenza dell’uomo sull’uomo si sono sgretolate come castelli di sabbia.

Non solo l’ultimo decreto sulla sicurezza, purtroppo, obbedisce alla logica della reazione. Dalla legge sull’immigrazione alla legge finanziaria, dal protocollo sul welfare al finanziamento delle missioni militari all’estero, gran parte degli atti della politica attuale sono dettati dal respiro corto della reazione.
Cosa potrebbe succedere se invece si cominciasse a creare? Si scoprirebbe, forse, che l’essere umano potrebbe ancora emanciparsi? Probabilmente questa eventualità non sarebbe molto gradita a chi oggi detiene il potere. Anzi, non probabilmente, sicuramente non lo sarebbe.
Ogni decisione, provvedimento, decreto o legge dovrebbe contenere elementi di emancipazione per l’essere umano. Per fare questo bisogna fare appello alle capacità creative della vera politica. Altrimenti è solo pura reazione. E di questa ne abbiamo più che abbastanza.


Roma, 8 novembre 2007


Carlo Olivieri (carlo.olivieri3@tin.it)

La sicurezza di Tex Willer


Lo sapevate? Ora con il nuovo pacchetto-sicurezza, varato dal governo italiano, saremo finalmente più al sicuro. Più al sicuro da che cosa? Da chi? Ma soprattutto: più sicuri perché?
Tutti noi, comuni cittadini, sappiamo che la prima preoccupazione della maggioranza di noi è la precarietà e soprattutto il fatto che, per la prima volta, le nuove generazioni non potranno, se si continua così, sperare in un futuro più sicuro rispetto a ciò che hanno vissuto le generazioni meno giovani.
Forse i cinque decreti governativi in questione rispondono a questa domanda di sicurezza? Non sembra proprio. E allora di quale sicurezza si sta parlando?
Forse si sta parlando della sicurezza di quella minoranza di italiani che certo non ha problemi ad arrivare alla fine del mese. Come, per esempio, la sicurezza del giornalista di Mediaset Sposini, il quale, subito dopo essere stato aggredito e derubato, non ha certo perso tempo ad incolpare due persone non identificate ma che sicuramente erano stranieri dell’Europa dell’Est. Romeni insomma.
Peccato che poi si è scoperto che gli aggressori facevano parte, invece, di una banda composta da nostri compatrioti, responsabili di ben otto colpi nel giro di un mese.
Eh bravo Sposini! Intanto un altro contributo affinché salga la tensione nei confronti degli stranieri l’abbiamo dato, no?! Poi, chi se ne frega se la verità è un’altra!


Questa, insomma, è la sicurezza di cui si è occupato il consiglio dei ministri? Questa è la sicurezza di cui sembrano tanto preoccupati alcuni sindaci?
Sta di fatto che, mentre tutti sembrano tanto preoccupati per garantire la sicurezza di noi cittadini dall’assalto di lavavetri, nomadi, prostitute, writers e clandestini, gli stessi enti locali molto spesso si rendono responsabili di atti ben più gravi e che mettono in serio pericolo il nostro futuro.
Molti enti locali, come i Comuni di Torino, Genova, Napoli, Taranto e come le Regioni Marche, Liguria, Lombardia, Puglia e Campania, solo per citare gli enti più grandi tra quelli coinvolti, sono indebitati fino al collo con le banche, facendo ricadere su tutti noi i danni di operazioni finanziarie, i cosiddetti “derivati”, costruite su debiti già esistenti: mentre normalmente sui debiti si pagano interessi predeterminati, con queste operazioni gli interessi variano col variare dei mercati. Migliaia di imprenditori, grandi e piccoli, sono caduti nella trappola e ora sono indebitati anche per centinaia di migliaia di euro. Ma se è una regione o un comune, cioè un ente pubblico, a perdere 100 volte quello che ha investito, siamo noi cittadini che dovremo pagare. Sarà per questo che molti sindaci si oppongono all’eliminazione dell’ICI sulla prima casa?
E allora? Da chi dobbiamo veramente guardarci? Chi attenta veramente alla nostra sicurezza? L’extracomunitario che vende merce contraffatta, reato per il quale ora è previsto un inasprimento delle pene, oppure chi, come molti nostri amministratori, arriva anche a nascondere tali malefatte finanziarie nei bilanci degli enti pubblici di cui sono responsabili?

La realtà è che il nostro paese si sta impoverendo e non solo economicamente. La storia ci insegna che quanto più aumenta la costruzione della falsa sicurezza - rappresentata da inasprimenti di pene, più presenza delle forze dell’ordine e più espulsioni di esseri umani sgraditi – tanto maggiore è l’insicurezza del futuro di un paese e del suo popolo. La concomitanza tra questi due fattori si è ripetuta innumerevoli volte ed è tuttora presente nei paesi più poveri.
Cambiamo rotta, prima che arrivi Tex Willer.

Roma, 31 ottobre 2007


Carlo Olivieri (carlo.olivieri3@tin.it)

BIRMANIA: PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI


È cominciata la repressione. Il regime militare della Birmania ha cominciato ad uccidere. La polizia birmana ha caricato i manifestanti e ha sparato sulla folla. Tre religiosi sono stati uccisi e le fonti locali parlano di 6 morti.


I responsabili di questa repressione sono prima di tutto i generali al potere: il presidente Than Shwe, il primo ministro Soe Win e il ministro degli esteri Nyan Win. Ma sono responsabili anche i governi dei paesi che, più o meno direttamente, appoggiano la giunta militare birmana: la Cina, l’India e la Russia.

La Cina è il grande protettore e finanziatore del regime. La Russia ha stipulato recentemente accordi per costruire un reattore nucleare. L’India compra dalla Birmania energia e vende armi; inoltre il ministro indiano per il Petrolio, Murli Deora, ha appena firmato un accordo di 150 milioni di dollari per ricerche di gas naturale in Birmania: un chiaro segno di appoggio alla giunta militare.

L’Italia, poi, non è completamente estranea: sono stati costruiti in India, usando forniture italiane, gli elicotteri Dhruv, che sono stati forniti alla giunta birmana, nonostante l’embargo dichiarato dall’Unione Europea.

La lotta popolare per la democrazia in Birmania deve essere sostenuta prima di tutto a livello internazionale. Anche l’Italia, insieme agli altri paesi europei, deve esercitare tutta la sua capacità di pressione, soprattutto sui paesi che appoggiano il regime militare.

Tra qualche giorno, il 2 ottobre, si festeggerà la “Giornata Mondiale della Nonviolenza”.
L’India, in particolare, potrebbe onorare Gandhi nel migliore dei modi. Più di mille celebrazioni ufficiali, contano i fatti. Il governo indiano dovrebbe porre fine all’attuale acquiescenza nei confronti del regime militare dittatoriale della Birmania.
Meno ipocrisia, insomma, e più nonviolenza attiva. Subito però, prima che sia troppo tardi.
Gandhi ne sarebbe felice.


Roma, 27 ottobre 2007
Carlo Olivieri (carlo.olivieri3@tin.it)

SALVIAMO IL 2 OTTOBRE


Le Nazioni Unite hanno proclamato il 2 ottobre, giorno della nascita del Mahatma Gandhi, “Giornata Mondiale della Nonviolenza”.
In quel giorno si realizzeranno numerose iniziative in tutto il mondo per celebrare la figura di un essere umano diventato simbolo internazionale della nonviolenza.

Probabilmente parteciperanno alle celebrazioni in onore della figura di Gandhi anche personaggi politici che nulla hanno a che fare con la nonviolenza, ma che anzi rappresentano, direttamente o indirettamente, esattamente l’opposto della nonviolenza.


Un esempio?
Il 2 ottobre dell’anno scorso, a Piazza Gandhi a Roma, si è svolta la celebrazione dell’anniversario della nascita del Mahatma, alla presenza dell’ambasciatore dell'India in Italia, Rajiv Dogra, e di Emma Bonino, Ministro del Commercio Internazionale e delle Politiche Europee.
Probabilmente questa manifestazione commemorativa si ripeterà, con gli stessi personaggi, anche nel 2007, tanto più che il 2 ottobre è diventato “Giornata Mondiale della Nonviolenza”.
Siamo sicuri che questi due personaggi siano all’altezza di poter celebrare la figura del padre della nonviolenza?

L’India è un paese in cui la percentuale di poveri sulla popolazione totale è al 26 per cento; in numeri assoluti dai 280 milioni ai 300 milioni di persone vivono in gravissime condizioni di povertà. Il 36 per cento dei poveri del mondo che sopravvive con meno di un dollaro Usa al giorno vive in India, così come il 68 per cento dei lebbrosi e il 30 per cento dei tubercolotici. Sul totale mondiale di decessi per malattie che potrebbero essere prevenute con vaccinazioni infantili, l’India conta il 26 per cento.
Nonostante tutto ciò, il governo di questo paese, di cui l’ambasciatore è il maggiore rappresentante in Italia, sceglie di spendere cifre incalcolabili per dotarsi di 60 testate nucleari missilistiche e aviotrasportabili.

Cosa c’entra tutto questo con la nonviolenza? Cosa direbbe Gandhi, se oggi fosse vivo, al governo del suo paese?

E passiamo al Ministro del Commercio Internazionale e delle Politiche Europee. Emma Bonino, nel 1995, quando, grazie all'appoggio del primo governo Berlusconi, era Commissario Europeo responsabile della Politica dei Consumatori, della Politica della Pesca e dell’Ufficio Europeo per l’Aiuto Umanitario d’Urgenza, dichiarava sul Corriere della Sera: «Può sembrare paradossale, certamente amaro se “da convinta nonviolenta quale sono da sempre” mi ritrovo a condividere, se non addirittura a invocare, l'uso della forza da parte della comunità internazionale per mettere fine ai crimini contro l'umanità che vengono impunemente perpetrati in un angolo d'Europa chiamato Bosnia. Sia chiaro: non sono pacifista, non sono per la pace ad ogni costo, soprattutto quando il costo è qualcun altro a pagarlo e a questo prezzo. Sono, invece, per la supremazia del diritto ad ogni costo, ed è amaro doversi arrendere all'evidenza che esistono circostanze storiche in cui la difesa della legalità non può essere affidata, ancorché temporaneamente, che all'uso delle armi».

Era solo il prologo. Nel 1999 il gruppo politico dei Radicali, di cui fa parte Emma Bonino, appoggiava esplicitamente l’intervento armato della Nato contro la Serbia. Un intervento che, a distanza di 8 anni, sta dimostrando tutta la sua inutilità in termini di democrazia e pace sociale.

Cosa c’entrano con Gandhi, dunque, un personaggio ed un gruppo politico che riescono ad essere nonviolenti solo in tempo di pace?

Questi personaggi sembrano riuscire ad essere coerenti solo con ciò che il filosofo e storico nordamericano Henry Adams, satiricamente, affermò: “la pratica politica consiste nell'ignorare i fatti”.
Salviamo il 2 ottobre.


Roma, 20 settembre 2007

Carlo Olivieri (carlo.olivieri3@tin.it)

CORRUZIONE? L’UNICA SOLUZIONE È ELIMINARE IL NUMERO CHIUSO


Il fenomeno sembra più ampio di ciò che si poteva immaginare. A quanto pare, in molte facoltà universitarie italiane i test di ammissione per immatricolarsi sono risultati truccati, nel senso che da alcuni studenti sono stati sborsati anche 30mila euro per avere le risposte giuste. Il fenomeno interessa un po’ tutto il territorio italiano, da Catanzaro a Messina, da Bari a ad Ancona, da Chieti a Roma, e così via.


Le dichiarazioni di sconcerto e di sorpresa abbondano sulle pagine dei giornali, come non mancano le proposte di modifica di un sistema che fa acqua da tutte le parti.
Il ministro dell’Università Mussi, sulle prove di ammissione alle facoltà universitarie, dichiara: “... a volte ho l’impressione che siano destinate più a proteggere corporazioni che a soddisfare i fabbisogni professionali”.
Mentre il ministro si crogiola in queste vaghe impressioni, i fatti dimostrano ampiamente che le cose stanno molto peggio di quanto egli afferma.

Alla base di queste vergognose irregolarità c’è, senza ombra di dubbio, il numero chiuso. In alcune facoltà il numero chiuso è stato introdotto sulla base di norme europee che obbligherebbero in tal senso. Poi il numero chiuso è stato applicato in molte altre facoltà.
Sin dall’inizio l’applicazione del numero chiuso fu contestato aspramente da molti settori della società, primo fra tutti il movimento studentesco. Le critiche si basavano innanzitutto sul concetto che il numero chiuso avrebbe determinato una forte restrizione del diritto allo studio, costringendo molti giovani a dover scegliere corsi di studi che non avrebbero mai intrapreso se fossero stati liberi di scegliere.
Inoltre, il dissenso nei confronti del numero chiuso si basava anche sul timore – se non la certezza - che l’ammissione non più libera allo studio universitario sarebbe diventata terreno fertile per la corruzione ed il clientelismo.

I fatti di questi giorni dimostrano che tali critiche - avanzate 30 anni fa e poi portate avanti fino ad oggi da alcuni movimenti studenteschi e da ormai pochissime formazioni politiche come il Partito Umanista – erano assolutamente vere e più che mai attuali.
Non solo il numero chiuso è una manna dal cielo per i corrotti e i corruttori di turno – determinando tra l’altro una forte discriminazione nei confronti di chi non può permettersi di sborsare migliaia di euro e di chi non ha i cosiddetti “santi in paradiso” – ma sta determinando anche un abbassamento del livello di professionalità, visto che molti cittadini sono spesso costretti a studiare ciò che non vorrebbero e a svolgere poi un lavoro che non vorrebbero fare.

Vista, infine, l’incostituzionalità dell’ultima legge – la 264/99 - sul numero chiuso, non c’è altra soluzione se non il ripristino della totale libertà di accesso allo studio universitario, sia per l’immatricolazione alle facoltà che per l’ammissione alle scuole di specializzazione mediche e non mediche.
Tutto ciò che restringe il libero accesso al sapere deve essere eliminato. La lotta non dovrebbe mai fermarsi fino a quando non sarà raggiunto questo obiettivo di civiltà.

Roma, 13 settembre 2007
Carlo Olivieri (carlo.olivieri3@tin.it)

sabato 8 settembre 2007

LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO


Il recente dibattito politico suscitato dall’ordinanza del Comune di Firenze contro i “fastidiosi” lavavetri ai semafori, si sta arricchendo ogni giorno di nuove dichiarazioni, puntualmente riportate dai maggiori mezzi di comunicazione di massa. È un arricchimento solo quantitativo ed apparente. In realtà ogni giorno siamo costretti a registrare invece, dal punto di vista qualitativo, un impoverimento.
Un impoverimento a cui ha contribuito in modo sostanzioso il pacchetto di provvedimenti che il ministero degli interni ha intenzione di proporre al consiglio dei ministri. Provvedimenti che finiscono col mettere nel mirino lavavetri e mendicanti, writers e ambulanti, in nome di una battaglia contro l’illegalità diffusa.

Ci domandiamo: perché tutto ciò non ci meraviglia? Perché, nonostante i nostri sforzi, non riusciamo a vedere nulla di nuovo nelle parole del ministro Amato e di alcuni sindaci come Cofferati e Domenici? Anzi, più cerchiamo di capire e più sentiamo un odore già conosciuto e poco gradevole, un odore in cui si mischiano, fino a confondersi, paura e ipocrisia.
Quella stessa paura e quella stessa ipocrisia che spingono tante persone a voler illudersi che per risolvere un problema basta spostarlo dalla visuale. Basta spingere la polvere sotto il tappeto.

Problemi come la povertà e la criminalità non possono essere trattati così, pensando di risolverli con qualche colpo di scopa.
È questo che la politica dovrebbe essere capace di dire alle persone, senza il timore di apparire impopolari e di non essere più votati alle prossime elezioni. Ma oggi la politica di palazzo è troppo impegnata in mediocri manovre per mantenere il potere, non può applicarsi con il giusto impegno a ciò che veramente interessa noi cittadini. La politica di palazzo non può perdere tempo a spiegare, ad ampliare gli orizzonti, a tentare di rispettare gli impegni presi con gli elettori.
E allora ci si affida alle scorciatoie. Si pensa di dare in pasto alla gente, preoccupata per la propria sicurezza, un po’ di repressione, una scopa per spingere la polvere sotto il tappeto: si sbattono le prostitute in aperta campagna, si sbattono i nomadi fuori i raccordi anulari, si cacciano via un po’ di lavavetri e di mendicanti. In fondo il fascismo del XXI secolo è anche questo: far credere che “è vero solo ciò che appare”.

Una politica che si rispetti, a nostro avviso, deve invece avere il coraggio di dire le cose come stanno. Dovrebbe dichiarare che sono finiti i tempi di fare di tutta un’erba un fascio, di equiparare un lavavetri ad un malfattore o di guardare ogni immigrato come un invasore.
Dovrebbe avere il coraggio di non contribuire più ad alimentare la convinzione che la sicurezza si basa sull’emarginazione degli ultimi e dei diversi, ma dovrebbe agire affinché si affermi il principio che la vera sicurezza si basa sui diritti fondamentali come il lavoro, la casa, la salute, l’istruzione, la giustizia sociale, la pace.

Evidentemente la politica che vogliamo non sta nei palazzi del potere o nei salotti televisivi. La politica che vogliamo non reprime, ma cerca di risolvere.
Non c’è più tempo per le paure e le ipocrisie. Non c’è più spazio sotto il tappeto.


Roma, 7 settembre 2007

Carlo Olivieri

giovedì 26 luglio 2007

L'ENNESIMO FURTO



Dal prossimo gennaio si potrà ancora andare in pensione con 35 anni di contributi, mentre l’età minima per andare in pensione non sarà innalzata così come era previsto dallo “scalone” del precedente governo, ma sarà di 58 anni. Molti hanno creduto alle parole del presidente del consiglio, riportate da tutti i giornali: “Abbiamo fatto giustizia. Abbiamo eliminato lo scalone”. Ingenui. Il piattino preparato dal governo somiglia molto a ciò che succede quando acquistiamo un bene e lo paghiamo a rate: all’inizio non paghiamo niente, ma poi alla fine del pagamento rateizzato avremo sborsato più soldi di quelli che avremmo speso se avessimo pagato subito.
Infatti è vero che a gennaio del 2008 non ci sarà l’innalzamento dell’età pensionabile così com’era previsto dallo scalone di Maroni, ma dopo appena 18 mesi, a luglio del 2009, scatterà il meccanismo delle quote. Dal 2009 si andrà in pensione con quota 95, ma con un'età minima di 59 anni: ciò significa che, per chi andrà in pensione a questa età, gli anni di contribuzione saliranno a 36. Tempo altri 18 mesi ed ecco che, dal primo gennaio 2011, la quota salirà a 96, con un'età minima di 60 anni. Infine, dulcis in fundo, dal primo gennaio 2013 la quota salirà a 97, con un'età minima di 61 anni.

Ancora una volta si conferma ciò che stiamo affermando da molto tempo: la differenza tra un governo di centrosinistra ed uno di centrodestra è sempre più formale e sempre meno sostanziale. Lo “scalone” del governo Berlusconi viene sostituito dagli “scalini” del governo Prodi: cambia la forma, ma la sostanza rimane la stessa.

Sono tanti coloro che, per sostenere la necessità di innalzare l’età pensionabile, paragonano l’Italia ad altri paesi europei. È facile conoscerli: scrivono sui giornali più diffusi e siedono anche in Parlamento. Dicono, per esempio, che non è possibile che in Italia ci sia gente che va in pensione prima dei 60 anni o con “soli” 35 anni di contributi, mentre in Olanda non si va in pensione prima di aver compiuto 65 anni; in Svezia sono richiesti 65 anni di età e 40 anni di contributi; in Germania 63 anni e 35 di contributi; in Francia, dal primo gennaio, si dovrà aver versato 40 anni di contributi; in Svizzera 65 anni e 44 di contributi.
È strano ma questi signori, quando fanno tali paragoni, dimenticano sempre di aggiungere che in questi paesi europei il reddito medio è in media del 50% superiore rispetto a ciò che percepiscono i lavoratori italiani, che hanno uno stato sociale molto più efficiente e tassi di occupazione sensibilmente superiori al nostro.

È strano, ma si dimenticano anche di considerare il fatto che in Italia, su 16 milioni di pensionati, la metà percepisce meno di 750 euro e di questi 8 milioni di pensionati, l’80% vive con meno di 500 euro al mese. È la prospettiva di vivere l’ultima parte della propria vita in povertà a spingere, già oggi in concreto, molti lavoratori ad andare mediamente in pensione a più di 61 anni.

Ma queste non sono le uniche amnesie. Le funzionalità cognitive di tanti politici e opinionisti, nonché di economisti ed esperti di previdenza, cominciano seriamente a preoccupare quando ci si accorge che, quando affermano che l’Inps ha un bilancio disastroso perché le uscite dovute al pagamento delle pensioni risultano talmente superiori alle entrate da rappresentare una minaccia devastante per i conti dello Stato, dimenticano che sin dal 1988 l’Inps ha due casse separate, una per gestire le entrate e le uscite del “Fondo pensioni lavoratori dipendenti” e l’altra per gestire gli interventi assistenziali (Gias).
È ovvio che se si dimentica questo non trascurabile aspetto e si considerano le due casse come se fosse una sola, si arriva a sostenere che la previdenza costa ai contribuenti oltre 70 miliardi l'anno.

Invece, guarda caso, la prima cassa – cioè quella che gestisce solo le pensioni – avrà addirittura un avanzo di esercizio, nel 2007, di quasi 3,5 miliardi. In altre parole i contributi versati superano le pensioni che escono. Il Fondo delle pensioni dei lavoratori dipendenti diventa passivo solo perché si è dovuto accollare l’onere di ex-Fondi, come l’Inpdai (ex Fondo dirigenti di azienda), che segnano un passivo di 6,3 miliardi. Ma pur considerando il peso di questo onere, le pensioni incideranno sul Pil del 2007 solo per il 9,7%, che sarebbe il 7,4% senza il peso degli ex-Fondi.

Siccome tutti questi dati vengono dimenticati, insieme al fatto che i contribuenti continuano ad aumentare ogni anno, i suddetti politici, opinionisti, economisti ed esperti di previdenza, continuano a prevedere che, se non si aumentano drasticamente l’età pensionabile e gli anni di contributi, nel 2040 le pensioni supereranno il 16% del Pil, mandando in sfacelo i conti dello Stato.

D’altronde è ovvio che, se si soffre di tutte queste amnesie, alla lunga ci si deprime e si diventa pessimisti. Inoltre, mentre si dimenticano tutti i dati più recenti, non si scordano le antiche passioni.

E allora perché meravigliarsi di questa riforma delle pensioni se si tiene in conto il fatto che l’attuale ministro dell’economia, Padoa-Schioppa, è stato membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea e in tale veste ha dichiarato: “Deve essere innalzata l’età effettiva di pensionamento ... che, nonostante il continuo aumento della speranza di vita, negli ultimi decenni si è ridotta. Attualmente, nell’area dell’euro l’età media effettiva di cessazione dell’attività lavorativa per gli uomini è compresa tra i 58 e i 64 anni; le donne vanno in pensione prima. Di conseguenza, il tempo medio che i pensionati trascorrono in pensione è salito a circa 20 anni, contro i 13 degli anni Sessanta” (Bollettino Bce, aprile 2003).
Come non deve aver dimenticato le sue antiche passioni lo stesso presidente del consiglio, Romano Prodi, che quando era a capo dell’Iri ha condotto in porto la privatizzazione di un considerevole numero di aziende, dando un suo personale e sostanziale contributo a far diventare lo Stato uno strumento del capitale finanziario europeo e mondiale.

Così siamo giunti al nodo del problema. Ovviamente dietro le citate dimenticanze ci sono invece menzogne, omissioni e manipolazioni. Lo stadio dell’economia di mercato si è esaurito ed ora il grande capitale cerca di disciplinare la società in modo da far fronte al disastro che esso stesso ha generato. Per fare questo deve rendere lo Stato un docile strumento nelle sue mani. Non è un caso che da alcuni anni, ormai, i capi di governo non sono più uomini politici, ma banchieri, grandi imprenditori e finanzieri. In alternativa gli unici politici che riescono a ricoprire la carica di capo del governo sono solo fantocci in mano al grande capitale.

Se si guarda la riforma delle pensioni da questo punto di vista, la questione delle quote e degli scalini diventa secondaria e acquista un’importanza di gran lunga maggiore ciò che è stato deciso collateralmente all’innalzamento dell’età pensionabile, cioè il meccanismo per determinare il valore dei “coefficienti di rendimento previdenziale”.

Il taglio dei coefficienti sarà attuato dal 2010. Una commissione avrà il compito di valutare e proporre le modifiche al sistema dei coefficienti entro il 2008. L'aggiornamento sarà effettuato ogni tre anni dal ministero dell'Economia e da quello del Lavoro, senza parti sociali, quindi automaticamente e senza obbligo di contrattazione. Un aggiornamento che verrà deciso sulla base di parametri che nulla hanno a che vedere con i conti previdenziali, come l'andamento demografico e l'aspettativa di vita, il Pil nazionale, le dinamiche macroeconomiche, gli obiettivi di bilancio statale.
Risultato? Sulle pensioni non si deciderà più in base ad una contrattazione con le parti sociali, ma lo farà direttamente e unicamente il governo. In questo modo la cassa previdenziale sarà ridotta ad una cassa completamente a disposizione dello Stato. E chi sta gestendo lo Stato? Lo abbiamo detto: progressivamente lo Stato è già diventato uno strumento nelle mani del grande capitale.
Se a questo si aggiunge la spinta a consegnare i propri soldi agli speculatori di borsa, tramite la previdenza complementare e il trasferimento del TFR nei fondi pensione, il grande capitale, oltre ad occupare lo Stato, mette anche le mani nelle tasche di milioni di lavoratori e pensionati.

Uno degli aspetti più aberranti di questa vicenda è il fatto che, per giustificare questa riforma, si fa appello alla solidarietà tra le generazioni. L’aberrazione sta nel fatto che a parlare di solidarietà sono gli stessi signori che continuano a chiudere i migranti provenienti dai paesi poveri nei centri di permanenza temporanea e che si rifiutano di usare i soldi che svaniscono con la speculazione finanziaria per risolvere, a breve termine e per vaste aree del mondo, i problemi della piena occupazione, della nutrizione, della salute, della casa, dell’istruzione. Sono gli stessi signori che, ognuno nel suo specifico, contribuiscono al controllo, da parte del grande capitale, dei mezzi di comunicazione e di informazione, e quindi della soggettività delle persone, determinando, in questo modo, la disintegrazione del tessuto sociale e delle vecchie forme di solidarietà.

Ci vuole proprio una bella faccia tosta ad evocare la solidarietà mentre si lavora costantemente, ogni giorno per anni e anni, alla distruzione di ogni sua forma.

Bisogna sottrarsi a questa morsa schizofrenica. Per l’ennesima volta, anche per questa riforma delle pensioni, i diretti interessati, cioè i lavoratori, sono stati ridotti alla condizione di spettatori su questioni che riguardano direttamente le loro condizioni di vita. I rappresentanti sindacali hanno dimostrato anche stavolta una totale inadeguatezza.

Lottare affinché si realizzi un reale e vincolante referendum tra i lavoratori è quindi sacrosanto. Ma è evidente che ancor più necessaria è una lotta, non solo nel campo del lavoro e della previdenza, ma politica, che abbia come primo obiettivo la sottrazione dello Stato dalla morsa del capitale finanziario internazionale, affinché si restituisca alla società l’autonomia che le è stata rubata.


Roma, 26 luglio 2007

Carlo Olivieri

venerdì 13 luglio 2007

LA VALLE DELL'APARTHEID


Chissà se si tratta di una particolare sensibilità alle diverse gradazioni di colore della pelle o se è il frutto di un corso specifico? Sta di fatto che è bastato che 38 bambini con la pelle un po’ troppo scura si avvicinassero alla Valle dei Templi per far scattare l’allarme.
Questi bambini, il 5 luglio scorso, non hanno potuto usufruire del ticket per l’accesso gratuito al sito archeologico, riservato ai minori di 18 anni, accesso gratuito che, per qualche ragione che sinceramente ci sfugge, è riservato solo ai minori della comunità europea.
I minorenni che non fanno parte della comunità europea non possono entrare nel parco, non per responsabilità di una “burocrazia poco elastica” – come ipocritamente ha dichiarato l’assessore ai beni culturali della Regione siciliana – ma perché è scritto molto chiaramente nella circolare dello stesso assessorato, che prevede addirittura l’attestazione della nazionalità vidimata dalla Regione per poter entrare nella Valle.

Alle responsabilità istituzionali si aggiunge la malafede dell’Ente che gestisce il parco, il cui direttore ha cercato di scaricare le responsabilità dell’accaduto sugli organizzatori della gita dei bambini, che non hanno presentato la documentazione necessaria. Lo stesso direttore dell’Ente, nel tentativo poco felice di scaricarsi dalle responsabilità, accusa gli stessi organizzatori della gita di una negligenza che farebbe correre ad Agrigento il rischio di “essere accusata di discriminazione”.
Agrigento? E che c’entrano i cittadini di Agrigento? Vista la natura infantile di questo tentativo di autodifesa, è probabile che l’età mentale di questi personaggi non corrisponda a quella anagrafica.

Ma altre domande ci sorgono, per così dire, spontanee. Per esempio: sarebbe successa la stessa cosa se all’ingresso del parco si fosse presentato un gruppo di bambini biondi, con la pelle chiara, gli occhietti chiari e il nasino all’insù, ma di nazionalità americana, russa o australiana, quindi evidentemente extracomunitari?
E ancora: gli addetti alla biglietteria si affidano solo alle capacità di discriminazione dei colori delle proprie retine oculari oppure si aiutano con un vero e proprio depliant con tutte le varie gradazioni di colore della pelle?

Sarebbe ingiusto, però, se si pensasse che le responsabilità siano solo della Regione o dell’Ente del parco della Valle dei Templi. Come si suol dire, il pesce puzza dalla testa.
Purtroppo è ancora in vigore la legge più discriminatoria che sia mai stata promulgata nella storia dell’Italia repubblicana, la legge Bossi-Fini. Una legge che il Parlamento non è stato ancora in grado di cancellare, nonostante le promesse elettorali. A questa si aggiunge una legge sulla cittadinanza che sancisce che coloro che nascono in Italia da genitori stranieri possono diventare cittadini italiani solo al compimento della maggiore età. In termini numerici, ciò significa che attualmente 585mila bambini nati in Italia – più del 20% della popolazione migrata da noi - sono ancora considerati stranieri.

Ciò che è accaduto alla Valle dei Templi, quindi, non è un episodio locale, ma il frutto di una legislazione che rende legale ciò che dovrebbe – secondo la nostra costituzione e la dichiarazione universale dei diritti umani - essere considerato illegale.

Roma, 11 luglio 2007
Carlo Olivieri