sabato 8 dicembre 2007

TORCE FLESSIBILI


Che cosa credete che volessimo intendere quando diciamo che il neoliberismo rappresenta un sistema che schiaccia l’essere umano? I fatti dimostrano ciò che vogliamo dire: finora sono morti quattro esseri umani, e altri tre sono in fin di vita, mentre lavoravano alla ThyssenKrupp di Torino. E non è stato un “incidente”.
Perché crediamo che la cosiddetta “flessibilità” va bene solo al grande capitale ed è invece una sciagura per i lavoratori? Perché siamo contro il progresso? Questo sarebbe il progresso? Costringere giovani operai – quali erano Antonio di 36 anni, Roberto di 32, Angelo di 43 e Bruno di 26 - a lavorare 12 ore e più al giorno, altrimenti rischiano il licenziamento? Questo non è progresso, è il medioevo.
Che cosa credete che volessimo intendere quando diciamo che la sicurezza è ben altro, non la “caccia ai romeni”? Sicurezza significa anche trovare gli estintori pieni e non vuoti, come li hanno trovati i compagni di lavoro di Antonio che hanno cercato di spegnere le fiamme che lo avvolgevano come una torcia. Sicurezza significa poter subito telefonare per chiedere aiuto e non alzare la cornetta e scoprire che non c’è linea, come è successo ai compagni di lavoro di Roberto.
Dove sono ora i teorici della precarietà e della flessibilità? Dove sono i predicatori del liberismo e della fine dello stato sociale? Dove sono tutti gli opinion maker che ogni giorno ci inondano di parole inneggianti le grandezze di un sistema politico-economico – quale è il neoliberismo - che invece è solo selvaggiamente capitalista, che rappresenta in fondo l’ambito migliore dove possono tranquillamente sguazzare i peggiori criminali, sempre pronti ad estirpare qualsiasi diritto, sul lavoro come nella vita.
Porteremo sempre con noi questi nomi: Antonio, Roberto, Angelo, Bruno. Ed ogni volta che sentiremo un capo del governo, un opinionista, un capitalista o un sindacalista, parlare di flessibilità, non gli diremo niente: gli ricorderemo solo questi nomi.

Roma, 8 dicembre 2007

Carlo Olivieri
medico umanista

1 commento:

Anonimo ha detto...

...con dolore e indignazione...


OLIO MINERALE

In fondo, la mobilità non turbava Antonio più di tanto. Alle chiacchiere degli amici non badava. “Starsene a casa a trentasei anni, come un vecchio, e poi cosa fai?”. Ma lui mica viveva per lavorare. Quanta vita lo attendeva, al fischio della sirena. Tre figli. La più piccola lo rimproverava sempre di rientrare tardi, la sera, e quando varcava l’uscio di casa la trovava già addormentata. Non gli restava che contemplarla in un’inespressa preghiera. Rivolgeva allora alla moglie uno riso di tenera sensualità mormorandole brevi, antiche parole: “Somiglia a te”. Sì, a casa avrebbe fatto tutto. Magari avrebbe portato la bimba un po’ più spesso al parco del Valentino, dove le insegnava cos’erano le nuvole. Per poi riscoprire muto, con un sospiro furtivo, l’anfratto in cui anni prima, con la giovane compagna, aveva scherzato e poi, sempre per gioco, l’aveva presa. Con l’ansia gioiosa e ingenua della belva selvaggia, stampandola sull’erba, quasi a nutrirsi della sua concretezza elementare.

E furono nozze di terra. La sua terra. L’umore lussureggiante d’un parco aveva incorniciato i loro baldanti sogni giovanili, lui che sapeva di pendici solatie e di olio.

Da piccolo, quando la madre gli friggeva le zeppole, nella dispensa semibuia, in grotta di tufo, sentiva che fondeva la vita. Una vita color d’oro. Tutto era divinamente semplice.

Magari, avesse potuto starsene a casa. C’era finito, in quell’acciaieria, come scaricato da un tunnel greve. Quando aveva saputo di essere diverso. Meridionale. Strano, fino a quel momento non si era sentito altro che un uomo. L’avevano poi insaccato in una tuta blu e diligentemente, con impegno e turgore, aveva assolto il suo compito con la docile resistenza d’un equino millenario. Racconto ancestrale e poesia di generazioni. Racchiuso in una sfera d’amianto.

Colata lavica. Ecco cosa gli ricordava l’olio minerale sul quale così spesso scivolava. Perché quell’aggettivo, minerale, lui non l’aveva mai capito. “E’ l’olio delle macchine, Antonio” gli aveva spiegato paziente il caporeparto. Pistoni, carburante. Quella era la loro vita stridente e furiosa. Delle macchine. Divampava, anche. Ma quel caldo non dava vita, non confortava le vene, come l’olio della dispensa materna, che – lo raccontava ai suoi bambini – accarezzava la gola. Deflagrava in bollore combusto, lasciando freddo il cuore terrorizzato.

Ma lui non aveva paura. E quel giorno si era trovato a misurare con lo sguardo ogni angolo, ogni cieco pertugio di quella foresta di ghisa. Foresta pietrificata, strana archeologia metallica. Era l’ultima volta. Presto l’avrebbero lasciato a casa. Ed ecco, sì, ne pativa. Ma solo perché per l’Immacolata non avrebbe neppure potuto racimolare il denaro necessario per comprare alla bambina quella glassa d’argento che tanto desiderava.

Ma sei giovane, ce la farai. Lui non aveva risposto, tenue e tenace come l’equino millenario. Ogni giorno ha la sua pena. Termino qui come fosse l’ultimo e il primo, abbraccio la bambina, abbasso gli occhi. Poi si vedrà.

Ma quel che gli risuonò negli occhi, all’intrasatta, fu un’immensa vampa di sole malato. Un’onda densa e anomala di bollore minerale. Rabbiosa, ferina della sua, malgrado tutto, socratica lontananza. Della sua anima densa e carnale, delle sue vene gagliarde. Lo ghermì per rubargliela, per soddisfare la sua stridula brama di alito eterno. Svanì con lei, rapito, circonfuso, spaziante.

E la gemma dell’Immacolata divenne, per Antonio, il giovedì delle ceneri.





Daniela Tuscano - Movimento umanista

(ad Antonio Schiavone e ai suoi compagni d’ogni latitudine)